L'INVENZIONE DEL SUONO

 




Chuck Palahniuk, Mondadori

VOTO: 9 

Mitzi è una bravissima rumorista, quotata a Hollywood perché le urla che produce sono davvero agghiaccianti.

Foster è un uomo svuotato, angosciato dal ricordo della figlia scomparsa diciassette anni prima.

Palahniuk intreccia magistralmente le due storie a spezzoni alterni, prima solo con brevi cammei che si sfiorano e si compenetrano per poi fondersi verso la fine in un flusso unico.

Mitzi è tormentata dalla figura di suo padre – morto da tempo e anche lui rumorista – e, per superare i traumi infantili, si affida ad un mix di alcol e benzodiazepine, unite a una strana terapia psicologica.

Foster invece frequenta un gruppo di supporto per genitori che hanno perso un figlio.

Chiaramente quello del gruppo di supporto è un'eco di FIGHT CLUB ma, disseminate nel libro, ci sono tantissime autocitazioni implicite come per esempio le foto di persona scomparsa sui cartoni del latte, che erano una chiave in SOFFOCARE, o il lago scuro che riecheggia il viaggio ultraterreno di DANNAZIONE.

I temi trattati sono quelli cari all'autore: la mercificazione del dolore e l'apparenza che – come dice il proverbio – spesso inganna. La spettacolarizzazione della sofferenza - sia fisica che mentale - rende lo snuff movie e la TV verità i nuovi modelli. In L'INVENZIONE SUONO però, il modo di affrontare questo canone ormai classico è diverso dal punto di vista stilistico, sia per l'uso del lessico (mi piacerebbe sfogliare l'originale americano: ci sono aggettivi prima del verbo e bellissime ripetizioni studiate ad arte che rendono più piena e pastosa la frase) sia per l'esplorazione di quella che potrei definire meta-immagine.

A più riprese infatti, i personaggi si vedono specchiati in un video, nel riquadro della finestra o in un file audio, come se il loro sé autentico (quello tangibile, presente e 3D) fosse ininfluente, mentre la malia di una scena ricostruita e apparentemente fasulla assume il controllo, diventando più reale del reale e penetrando nelle coscienze delle masse.

È proprio la reazione di massa che interessa Mitzi, o meglio  lei studia quella che  chiama “risonanza limbica”, un'emozione primordiale che si esprime simultaneamente in un'intera folla attraverso un urlo, di gioia o di terrore. È dunque così – ma quasi per caso – che raggiunge la creazione di un'arma definitiva, in grado di distruggere un palazzo in pochi minuti, ovviamente provocando moltissime vittime.

La descrizione del crollo del teatro è un pezzo davvero stupendo che fa sentire al lettore le vibrazioni, gli scoppi, i cedimenti e mi che mi ha ricordato l'intensità emotiva della rappresentazione delle ninfee di Monet in CITY di Baricco: qualcosa di talmente bello, e che racconta a sua volta un'esperienza sensoriale tanto totalizzante, da essere quasi intollerabile. Naturalmente non si tratta di un mero esercizio di stile: Palahniuk vuole tristemente mettere in guardia dalla crisi dilagante del cinema come luogo di fruizione,  che sta perdendo la battaglia contro l'home theatre e le piattaforme digitali: si passa cioè da un momento comune a qualcosa di solitario, laddove la forma privata dell'atto ne neutralizza il valore emotivo.

Già in SENZA VELI, lo scrittore di Portland aveva omaggiato il vecchio cinema hollywoodiano attraverso un procedimento simile a quello messo in atto in questo nuovo romanzo: l'utilizzo frequente di aneddotica curiosa e – si suppone – documentata.

L'ispirazione per il soggetto dell'arma ultrasonica non è poi così strana come si potrebbe pensare: Palahniuk si rifà apertamente alle sirene di Ulisse e all'episodio biblico delle mura di Gerico.

In L'INVENZIONE DEL SUONO le tematiche classiche dell'autore assumono una dimensione noir, con meno scene di sesso esplicito (tranne un'eccezione!) e ho trovato a tratti un pochino difficile seguire il filo delle verità, tanto si fa fitto l'intreccio di piste false da smascherare.

Un altro argomento interessante che si fa strada tra le pagine è la presenza di pulsioni malvagie in ognuno di noi. In Palahniuk non esistono mai i protagonisti senza macchia, totalmente virtuosi, forse perché persone del genere non ci sono nella realtà. Ovviamente quelle di Palahniuk sono sempre delle esagerazioni, delle iperboli – che si parli di sesso o di situazioni splatter – ma è solo un trucco ben riuscito per toccare le corde interne dell'animo umano.

Anche Foster, da bravo padre – anonima sagoma “a forma di papà” - si sente costretto a passare all'azione, più per disperazione che per convinzione, e spesso con risultati tragicomici finché anche l'amore e il concetto di famiglia diventa una complessa mescolanza di verità e finzione.

Su questa falsariga, Palahniuk tocca un aspetto davvero spinoso e politically incorrect: l'essere genitore, o meglio il possedere o meno quello che viene comunemente definito istinto materno o paterno. Mitzi sembra non avere assolutamente questa pulsione che noi tutti considereremmo naturale: le sue decisioni sono tutte prese in un mondo di ombre e di sogni non molto lucidi; Foster al contrario è il prototipo del padre, anche se ciò che fa per superare la scomparsa di sua figlia Lucinda potrebbe essere discutibile.

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