CAPANNONE N.8

 





Deb Olin Unferth, Edizioni SUR


VOTO: 9

CAPANNONE N. 8 è un romanzo che mi ha sorpreso molto; e mi ha sorpreso per varie ragioni.

Innanzitutto, perché è stato oggetto di un circolo di lettura: io, entrando in libreria, non lo avrei scelto, essenzialmente per il semplice fatto che non conoscevo l’autrice.

E invece è stato proprio lo stile di Deb Olin Unferth a conquistarmi: quel modo di usare gli incisi e le parentesi che è così incredibilmente vicino al mio gusto estetico / sonoro di scrittrice (scusate se me la tiro un po’).

Ma parliamo della trama del libro, che ho trovato davvero intelligente:

si racconta di un gruppo di animalisti dediti ad investigare contro gli abusi commessi negli allevamenti intensivi di galline ovaiole. Una di queste ragazze, che lavorava all’interno del sistema, decide di agire in grande e liberare TUTTE le galline di uno stabilimento.

La parte migliore e più coinvolgente del romanzo è la creazione della squadra d’assalto degli ecologisti che mi ha ricordato tantissimo la corsa folle de IL LIBRO DI TALBOTT di Chuck Palahniuk, quando l’autore mette insieme i tasselli dell’esercito che rovescerà il governo e nel contempo ci presenta tutti i personaggi con dei brevi cammei (procedimento che in realtà riecheggia volutamente FIGHT CLUB). La Olin scrive ad un certo punto:“Da solo sei un uomo sandwich. In due balli il valzer. In quattro formi una band”. Mi ricorda quella frase che ho letto su Facebook: “Cinque uomini sbronzi fanno una rissa; cinque uomini fatti formano un gruppo”, come a dire che per le grandi imprese ci vuole l’incoscienza e poche inibizioni sociali.

Anche la scrittrice di Chicago mette in scena un mare di personaggi, ma questo non ha un effetto straniante perché poi ne sviluppa solo alcuni, lasciando gli altri sullo sfondo, nella massa indistinta.

La trovata geniale sta nel dar voce anche al punto di vista delle galline, capeggiate Bwwaauk, il primo uccello a ritrovarsi all’aria aperta. E qui ho sottolineato una frase che mi rimarrà impressa per sempre: “ Per essere liberato devi avere un posto in cui puoi essere libero”. Successivamente ci si allarga a considerazioni generali sul modo di sentire e pensare tipicamente avicolo.

Mi è venuto in mente ORANGE IS THE NEW BLACK: ricordate il ruolo cardine della mitica gallina che razzolava nel cortile del carcere? L’uccello è stato per un po’ simbolo di indipendenza. Nella serie, all’avvistamento di quel primo uccello, era conseguita la creazione di un piccolo pollaio gestito dalle detenute come attività rilassante e responsabilizzante.

Il parallelo tra gli allevamenti (e le loro terribili crudeltà) e la situazione degli esseri umani chiusi – volenti o nolenti – in un panopticon iper-vigilato è evidente ed esplicitato anche in CAPANNONE N. 8, e non a caso il titolo stesso è un rimando fortissimo a MATTATOIO N. 5, in cui Kurt Vonnegut testimoniava gli orrori della sua prigionia in un campo di concentramento in Germania.

La Olin Unferth ha svolto un lunghissimo lavoro di ricerca per documentare la realtà degli allevamenti, dando a volte al libro tratti da saggio o da reportage senza che questo diventi noioso, anzi è una spinta potente a diventare vegani!

Ricordo accenni alle atrocità dei vivai in un racconto – sempre di Palahniuk – in cui i pulcini maschi venivano schiacciati vivi dai cingoli di un trattore, oppure ancora l’eco di questa pratica di “scarto selettivo” nel bellissimo film MINARI del regista coreano-americano Lee Isaac Chung, in cui si vedeva il fumo di un inceneritore (proprio come in un campo di sterminio).


Come ho accennato, i personaggi principali di CAPANNONE N. 8 sono ben sviluppati e restano impressi con i loro caratteri e le loro nevrosi.


  • All’inizio, l’autrice ci presenta Janey che scappa dalla sua casa di New York per andare a conoscere suo padre in Iowa e, per una serie di scherzi del destino, si ritrova bloccata a vivere con lui. Uso appositamente la parola “destino” perché compare più volte nel corso del libro, al punto che Janey inventa una specie di gioco alla SLIDING DOORS in cui c’è una “Vecchia Janey”, che è rimasta a New York, e una “Nuova Janey”, che “ha cercato di smorzare la sua stessa luce. Di ridurre il desiderio. Di ridurre la rabbia”. Bisogna menzionare anche la figura del padre: un uomo che ovviamente non voleva la responsabilità di una figlia (e questo è certamente esecrabile ma in una certa misura comprensibile), e che però quando si trova ad affrontare la nuova situazione, cerca di fare del suo meglio.

  • Poi arriva Cleveland, una donna sulla quarantina (scusate ma per me resta un nome da uomo!) che è un po’ in bilico tra l’ottemperanza alle regole e la ribellione.

  • E poi ancora Dill animalista idealista e fallito, che vede la sua storia d’amore con “il bancario” sgretolarsi tristemente. Qui c’è anche un passaggio alla diversità culturale e al favoloso meltig pot che costituisce gli Stati Uniti, quando si racconta brevemente la storia del “bancario” (al secolo Dev), di origini indiane. Il rimando è a libri ormai classici come IL DESTINO NEL NOME di Jhumpa Lahiri, però secondo me questa parte andava allungata e spiegata di più.

  • Annabelle Green, figlia degli allevatori della Fattoria Felice Green e la più radicale di tutti. Si era ritirata dall’attività, isolandosi in un sito contaminato, il che mi ricorda moltissimo l’intrepida Melisandra, protagonista di WASLALA (il più bel libro a tema ecologista che io abbia mai letto). E per inciso, può darsi che ci sia davvero un richiamo consapevole di questo tipo dato che l’autrice Gioconda Belli è nicaraguense e la Olin ha trascorso un certo periodo proprio in quel Paese latino-americano.

    Mi è piaciuta moltissimo la rappresentazione delle coppie presenti (Janey e Zeta, Annabelle e Jonathan e ovviamente Dill e “il bancario”): la scrittrice mette in scena una moderna declinazione dell’amore purissimo, fisico e mentale, che resiste – o vuole resistere – a tutto ed è capace di grandi gesti romantici.; un amore fatto di “Habit, addiction and faith”.

    E qui c’è un’altra frase memorabile che sembra uscita da una canzone dei Ministri (ma non penso che la Olin li abbia mai sentiti nominare): “Il mondo cambia di continuo, con o senza di me”.


Il finale, cioè quello che avviene davvero alla Fattoria Felice Green, è davvero epico e molti forse avrebbero chiuso così il romanzo.

Infatti, alcuni lettori hanno trovato pesante l’ultima parte, che è una sorta di “Come è andata a finire”. Io invece penso sia stata utile e scorrevole, a tratti persino divertente.

L’episodio migliore è quello che racconta il destino delle galline all’interno di un parco naturale e la successiva glorificazione di quello stesso sito da parte delle galline del futuro (quasi attribuendo agli uccelli un pensiero magico / religioso): ricorda un po’ uno degli aneddoti di un bel libro giapponese appena uscito: UN LAVORO PERFETTO di Kikuko Tsumura, in cui la protagonista trova un uomo che vive allo stato selvaggio in una riserva naturale.

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