MEMORIE DI UN ASSASSINO




MEMORIE DI UN ASSASSINO è il nuovo film di Bong Joon-Ho; cioè, nuovo si fa per dire! Il film in realtà è del 2003 ma è approdato adesso nei cinema italiani sull’onda del successo ottenuto dal regista coreano agli Oscar.
Siamo nel 1986. In Corea del Sud c’è una dittatura militare che dura da più di dieci anni. In un paesino di campagna non troppo lontano da Seul si profila l’ombra di uno stupratore / assassino seriale, ma i poliziotti locali non hanno né i mezzi né le capacità per gestire un caso di questa portata. I metodi sono aleatori e brutali e – in maniera un po’ ridicola – si affidano addirittura alla superstizione. Per questo viene inviato dalla capitale l’investigatore Seo Tae-Yun, che utilizza metodi più moderni di deduzione.
Il film è una riflessione sulla condizione di vita nella Corea del regime: si vedono le fabbriche, le manifestazioni militari, il coprifuoco; la scuola fino a tardi e le esercitazioni …. Ma è anche una riflessione più generale sull’emarginazione dei deboli e delle donne. I sospettati sono poveretti, reietti, ritardati (tranne l’ultimo, che ha tutte le caratteristiche del sociopatico) che vengono maltrattati dai poliziotti e bullizzati dai più forti, in particolare dall’agente Cho Yong-Gu – che ama colpire le sue vittime con dei calci volanti, ironico riferimento ai film di arti marziali e ai film epici cinesi wuxia. L’ironia si vede anche nel copri-scarpa a fiorellini che l’agente mette per non lasciare segni e non sporcarsi, ma il tutto è anche una specie di indizio di quanto deve avvenire – come la pistola che, se compare in un racconto, poi dovrà sparare.
Nel corpo di polizia c’è anche una donna che però viene trattata a pesci in faccia dai colleghi maschi, sottolineando il maschilismo della mentalità coreana.
A complicare le indagini c’è il fatto che non solo la polizia di un piccolo distretto di campagna è più arretrata di quella delle metropoli, ma l’intero sistema è indietro rispetto agli Stati Uniti, dove si utilizzavano già tecniche all’avanguardia come l’analisi del DNA. E il mito dell’America striscia e convive nel quotidiano coreano, accanto alla tradizione: i ragazzi indossano la divisa scolastica ma amano le scarpe da ginnastica straniere, mentre l’industria – specie quella automobilistica – è fortemente protezionista.
Gli omicidi si fanno sempre più efferati e l’assassino infila oggetti nella vagina delle vittime. Ammesso e non concesso che questo abbia un senso simbolico – come gli ami ne L’ISOLA di Kim Ki-Duk rappresentavano la prevaricazione maschile sulla donna – i pezzi di pesca potrebbero essere legati idealmente alla tradizione, riferendosi agli Otto Immortali della leggenda cinese. Oppure potrebbe essere una reinterpretazione di una pratica sessuale che si faceva con le giuggiole, in uso in Oriente in passato, descritta nel libro COME ACQUA SUL FIORE DI LOTO di Hwang Sok-yong. Il romanzo tratta la storia di Shim Chong. Penna e forchetta trovate nel corpo della studentessa potrebbero essere l’esemplificazione del rigido sistema educativo.
Ottimo anche il finale, che lascia tutto nel dubbio: per una volta non siamo davanti ai super-poliziotti che in tre giorno risolvono i casi più intricati! Solo alla fine si capisce il senso del titolo: il colpevole torna sul luogo del primo delitto dopo 17 anni.

Se devo trovare un difetto, i personaggi sono un po’ stereotipati: gli agenti di campagna violenti e un po’ stupidi e l’investigatore di città super cool, bello e hard-boiled con la sigaretta in bocca. Ma anche lui alla fine cede alla violenza, come se questa fosse l’ultima risposta davanti all'impotenza, però dobbiamo ricordare che la ferocia è in un certo senso connaturata in un sistema di forte pressione sociale come quello coreano.


Bravissimi gli attori, specie Song Kang-Ho che interpreta il detective Park, il protagonista, e che conoscevamo già da PARASITE, in cui era il padre della famiglia; e Kim Sang-Kyung, che interpreta l’ispettore di Seul.



https://youtu.be/y4_qR8h-0Jg

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